Asteriscano accenti alfabetieri*
Ogni domenica durante la mia infanzia, mio padre ci dava lezioni di lettura e scrittura turca in sala da pranzo. L’alfabeto turco corrisponde all’alfabeto latino, con l’aggiunta di alcune lettere (come ç, ş, ğ, â) che mi piaceva moltissimo utilizzare, perché mi permettevano di andare oltre i confini circoscritti dall’alfabeto tedesco, confini che mia madre custodiva gelosamente. Lei mi insegnò che per sottolineare una parola contenente per esempio una “g”, la linea doveva interrompersi prima di essa per dare spazio alla parte inferiore della lettera, e poi riprendere subito dopo. Formando righe rigorose. Il prolungamento della lettera “g” era da lei concepito come invasione di un altro spazio, un’interruzione di una linea retta. Perciò, poter aggiungere tante strisce e piccoli segni in turco che accompagnavano le c, le s ecc., per me significava oltrepassare quella linea, scrivere in uno spazio normalmente controllatissimo, e ornare tutte le mie righe scritte con degli abbellimenti divertentissimi. Così in famiglia, per anni, hanno convissuto due diverse visioni su come utilizzare lo spazio grafico della scrittura oltre la linea retta. Due visioni del mondo nella stessa casa.
Quando ho iniziato a leggere i primi libri in italiano, sempre con un particolare interesse rivolto a tutto ciò che circonda le lettere, mi sono imbattuta in un dettaglio grafico che ha attirato la mia attenzione. Ho notato che nei libri editi da Einaudi gli accenti sulle í e le ú in finale di parola erano acuti (piú, cosí…), mentre tutti gli altri editori adottavano l’accento grave (ì, ù). Ovviamente ho pensato subito a un errore, ma la sistematicità di questa convenzione grafica mi ha portato a pensare piuttosto a un atto di ribellione contro una convinzione di principio. Due mondi, due visioni in netto contrasto, uno a destra, uno a sinistra, uno all’insú, l’altro all’ingiù. Ho temuto uno scontro aperto in uno spazio grafico e ho iniziato a indagare sulle ragioni di tale scelta.
L’italiano si basa su un sistema eptavocalico, vale a dire che dispone di sette vocali, di cui tre sono aperte (a, e aperta, o aperta) e quattro chiuse (i, u, e chiusa, o chiusa). Questa realtà fonetica può essere rappresentata a livello ortografico con l’accento grave per le vocali chiuse e con l’accento acuto per le vocali aperte, in modo tale da distinguere parole omografe come p.es. pésca/pèsca, bótte/bòtte ecc. Essendo le “i” e le “u” delle vocali chiuse, questo ragionamento comporta un sistema fonetico con un ventaglio grafico dei vocali come segue: à, è, ò, í, ú, é, ó. Tuttavia, la convenzione adottata con lo stabilizzarsi dell’accento grafico nella prim metà del Novecento prevede l’accento grave per le vocali con un solo tipo di apertura (à, ì, ù), mentre alterna l’accento acuto con quello grave a seconda dell’apertura o chiusura della vocale (è, é, ò, ó), ed è questo sistema che la maggior parte degli editori adotta.
Entrambe le categorizzazioni sono pienamente valide, ognuna impiantata e cresciuta nella sua logica intrinseca.1 Ma il risultato di queste due visioni sono due segni diacritici opposti, pur raffigurando sul piano del significato la stessa manifestazione vocalica e la stessa produzione fonetica. Il segno linguistico diventa così uno spazio arbitrario, dove il vero è il vero quanto il contrario del vero. Per me quello spazio è l’aleph del mio universo. Un universo fatto da segni, accenti e apostrofi. Mi trovo d’accordo con mia madre, con i suoi accenti posizionati con vigore, e con mio padre, che permette di de-lineare il mondo e rovesciarne l’inchiostro. Avrà ragione Perec: “Questo luogo borgesiano in cui il mondo intero è simultaneamente visibile, che altro è se non un alfabeto?”2
* Edoardo Sanguineti, Il gatto lupesco
1 Vedi “Accento grafico su i e u: grave o acuto?“, Paolo Matteucci, 2004
2 “Specie di spazi”, Georges Perec